Un anno dal lockdown: i giorni di marzo 2020 che hanno cambiato le nostre vite
Taisia Raio – “State cambiando le abitudini di vita, l’Italia è un grande Paese, ci ammireranno e prenderanno come esempio positivo”. Sono le prime parole che mi vengono in mente ripensando al discorso del premier Giuseppe Conte. Riascoltandole vengono i brividi, è come riavvolgere il nastro e tornare indietro a ‘quando tutto era diverso’, una frase che spesso abbiamo sentito pronunciare dai nostri nonni. Riguardando il video anche il volto dell’ormai ex Presidente era diverso, più sereno, più disteso, cercava di rasserenare gli italiani, probabilmente credeva che in qualche modo tutto sarebbe terminato in breve tempo.
Ero a cena la sera del 7 marzo e ricordo il viso sgomento del titolare del pub che apprendeva dai Tg Nazionali che il giorno dopo non avrebbe riaperto. Fino a quel momento qui al Sud avevamo vissuto l’emergenza Coronavirus come un problema che riguardava principalmente il Nord. Alcuni si sentivano graziati, altri in apprensione si erano già dotati di kit anti-contagio con scorta di mascherine e gel igienizzante, altri ancora invece ironizzavano, stupidamente, sul virus come durante i cori da stadio e banalizzando l’argomento con frasi del tipo: “e vabbè noi abbiamo avuto il colera, loro il Covid”.
Poche ore e tutto sarebbe cambiato. Erano le 2.30 dell’otto marzo 2020 e tv, web e social network erano letteralmente “invasi” da immagini da film catastrofico, sembrava di vedere una scena di The Day After Tomorrow di Roland Emmerich, le persone scappavano, fuggivano con le valige, il tempo di recuperare pochi oggetti e poi via veloce, di corsa sul primo treno verso Sud, in quel momento considerato l’Eden.
Alla notizia che il prossimo decreto avrebbe previsto la chiusura della Lombardia e di altre 11 province fino al 3 aprile (quindi poco meno di un mese) in migliaia presero d’assalto bus, treni e auto per fuggire via dal virus e in molti casi ‘portandolo con sé’. Quelle immagini scatenarono, come prevedibile molte polemiche, la rabbia dei virologi che invitarono quantomeno i fuggiaschi a mettersi in quarantena per evitare la propagazione del virus, la comprensione di parenti e amici che invece, in molti casi, esortarono i propri congiunti a scappare quanto prima, lo sdegno di chi decise di restare in Lombardia e di non mettere a rischio la propria salute e quella altrui e infine la stretta decisiva da parte del Governo.
Il 9 marzo 2020 l’annuncio del lockdown Nazionale: il Dpcm firmato l’11 marzo dal presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, doveva fronteggiare il contagio del Coronavirus. Le disposizioni del decreto sarebbero dovute restare in vigore da quel giorno fino al 25 marzo. Non fu così. E da lì la storia la conosciamo bene, si può racchiudere in poche parole: la distanza, le canzoni dai balconi, la speranza e poi la primavera e l’avvento dell’estate, un’apparente e illusoria rinascita; il “liberi tutti”, la nostra esistenza che riprese come prima, attimi di vita che avremmo pagato caro di lì a breve. Settembre: i contagi che tornano ad essere importanti, le nuove chiusure, il Natale in zona Rossa e poi ancora la speranza del vaccino, luce per l’anno venturo e poi oggi un anno dopo le saracinesche nuovamente abbassate, ancora qui a decidere se aumentare le restrizioni o chiudere tutto. Lockdown ancora una volta, un anno dopo.
Abbiamo riavvolto il nastro, un anno è passato, troppe vite spezzate dal Covid, eppure sembra che tutto sia terribilmente fermo al 9 marzo, la data che coincide con l’inizio della fine.